Il rito del caffè e il vizio della fretta: cosa la moka ci insegna sui processi aziendali
- Filippo Busca

- 3 dic
- Tempo di lettura: 3 min
Diciamoci la verità: la moka ha un fascino che nessuna macchina superautomatica potrà mai imitare. È un oggetto semplice, quasi umile, eppure capace di trasformarsi, ogni mattina, in un rito potente.
La caffettiera che borbotta, quel profumo che si diffonde piano, la prima tazzina della giornata… È un gesto che ci appartiene così tanto che alcuni ristoranti lo hanno adottato persino come “cerimonia di chiusura”, un modo per rendere il fine pasto più intimo e vero.
E non è solo una questione italiana: il caffè è un linguaggio universale.
Mi torna spesso in mente una frase letta anni fa, in un vecchio volume dedicato alla storia del caffè:
“Nessuno può ignorare che al mattino, ogni volta che il sole si affaccia dal suo orizzonte naturale in qualsiasi parte del mondo, uomini e donne di ogni ceto e classe sociale accostano le labbra a una tazzina di caffè.” (Il Caffè – Nardini Editore)
Noi, certo, ci siamo innamorati della moka: discendente diretta della napoletana, la famosa cuccumella, e diventata un simbolo delle nostre cucine.
Ma il mondo del caffè è un mosaico di riti: il metodo arabo, quello americano, quello scandinavo…
Forse solo i giapponesi hanno trovato la loro via al risveglio nel tè, senza sentirsi in dovere di unirsi alla nostra liturgia caffeinica.
Eppure, per quanto cambino forme, filtri, tradizioni, c’è un gesto che è comune a molti di noi: mettere la moka sul fuoco… e alzare la fiamma un po’ più del necessario, “così fa prima”.
Sì, “così fa prima”: è lì che inizia la storia in cui si perde un po’ di poesia e che, ahimè, ci riguarda davvero.
La caffettiera borbotta, protesta, si agita. Noi arriviamo sempre un attimo dopo. E il caffè, inevitabilmente, viene un po’ più amaro.
Ogni volta che succede (e mi succede), penso che in azienda facciamo la stessa identica cosa.
La caffettiera che borbotta è l’immagine perfetta di molte organizzazioni moderne.
Abbiamo obiettivi, processi, strumenti, metodologie…e poi, nella vita reale:
teniamo il fuoco troppo alto.
Spingiamo. Acceleriamo. Sovraccarichiamo i team. Chiediamo consegne rapide, implementazioni istantanee, deployment senza respiro.
Convinti che lavorare “più forte” significhi andare “più veloce”.
Ma come nella moka, la fretta non accelera: degrada.
Un ERP messo sotto pressione produce work around. Un team spinto oltre misura produce errori. Un processo accelerato salta passaggi critici.
L’output arriva, sì. Ma, proprio come il caffè bruciato, arriva più amaro.
Nei progetti di digitalizzazione questa dinamica è estremamente comune.
La fretta crea scelte sbagliate. Quando c’è urgenza, mettiamo in produzione ciò che “basta che funzioni”. La qualità? Rimandata. Il rischio? Altissimo.
Si accetta una configurazione provvisoria “per non rallentare”, si salta un test “perché tanto è uguale agli altri”, si riduce il tempo di formazione “perché poi gli utenti imparano da soli”.
È come togliere la moka dal fuoco al momento sbagliato: il caffè esce comunque, ma non è il caffè che volevamo.
La pressione distrugge i processi, Un processo ERP nasce per essere stabile e ripetibile. Se lo acceleri, non lo rendi più efficiente: lo deformi.
Il flusso viene aggirato, nascono eccezioni, si aggiungono step manuali. Ogni scorciatoia sembra innocua, ma nel tempo costruisce un labirinto.
Come l’acqua che dovrebbe salire lentamente, distribuirsi, estrarre aroma… e invece esplode in un minuto di vapore bollente.
Il burnout organizzativo. La fretta sistemica genera stress invisibile:
decisioni prese troppo in fretta,
riunioni convocate “per ieri”,
controllo e ricontrollo perché non ci fidiamo più del processo,
errori che richiedono correzioni,
tempo perso a “rimettere a posto ciò che abbiamo fatto troppo in fretta”.
È il paradosso delle aziende moderne: più corri, più rallenti.
Tre possibili antidoti al “fuoco troppo alto”:
1. Pausa di 30 secondi. Prima di avviare un progetto o un task, chiediti: “Stiamo facendo la cosa giusta o solo la cosa più veloce?” Spesso questa domanda da sola cambia la scelta.
2. Rendi visibili i tempi veri. Misura quanto costa la fretta: rework, errori, ticket, attività manuali nate da scorciatoie. Mettere questi numeri nero su bianco aiuta a capire che “fare prima” non significa “fare meglio”.
3. Dai dignità ai passaggi lenti. Ogni processo ha momenti che devono essere lenti: analisi, validazione, test, formazione. Non sono un ostacolo: sono il filtro che dà qualità all’intero sistema.
Proteggerli è un atto di leadership, non di burocrazia.
La moka non mente. Se la tratti con fretta, te lo restituisce nel sapore.
In azienda è uguale.
Il punto non è correre di più, ma capire quando serve correre e quando serve abbassare il fuoco, lasciare che le cose si facciano con cura, che il processo esprima il suo aroma naturale.
La vera efficienza non è la velocità di picco, ma la continuità nel tempo. È il ritmo che puoi sostenere senza bruciare né il caffè, né le persone.
E tu?
In quale progetto della tua organizzazione senti che la caffettiera sta già borbottando?
Con questo concludo e #restoinascolto.




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