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Noi contro le macchine?

  • Immagine del redattore: Filippo Busca
    Filippo Busca
  • 15 lug
  • Tempo di lettura: 3 min

📍 Siamo in Danimarca, primi anni ’80. L’azienda è la LEGO. Il momento è di quelli delicati: si discute dell’introduzione di nuove tecnologie nelle linee produttive. E in un passaggio, Tove Christensen — rappresentante sindacale all’interno dell’azienda — dice una frase che mi ha colpito profondamente:

“Lo sviluppo tecnologico non può che andare avanti. Ma per ogni nuova macchina introdotta, noi lavoratori ci rimettiamo ore di lavoro…”

Una frase semplice, ma densissima. È il punto di vista, molto umano, di chi si sente messo in ombra da una trasformazione che sembra inarrestabile. Ed è anche uno specchio perfetto del sentimento che attraversa — ancora oggi — molte organizzazioni quando si parla di automazione, digitalizzazione o intelligenza artificiale.

Non è un problema nuovo. La paura del “noi contro le macchine” non è affatto nuova. Anzi, è ciclica. Nel corso della storia l’abbiamo vista tornare più volte, con nomi e contesti diversi:


  • luddisti dell’Ottocento che distruggevano i telai meccanici perché toglievano lavoro agli artigiani.

  • Gli impiegati amministrativi spaventati dall’avvento dei personal computer.

  • Gli operai delle catene di montaggio a confronto con la robotizzazione.


Oggi abbiamo l’AI generativa, i copilot, le chatbot intelligenti, i software predittivi. Ma il copione è molto simile.

La tecnologia fa passi avanti — spesso molto rapidi — e le persone si interrogano su quale sarà il loro posto nel nuovo equilibrio.


La questione è culturale, non tecnica. Quando Tove Christensen esprimeva le sue preoccupazioni alla LEGO, lo faceva da un punto di vista legittimo: quello dei lavoratori. La tecnologia entrava in fabbrica, ma le regole del gioco non erano state discusse. Non si parlava (ancora) di riqualificazione, redistribuzione del tempo, nuovi ruoli, nuove competenze. Il rischio era che il tempo liberato dalle macchine non venisse restituito alle persone, ma perso.


Ecco perché questo episodio, pur vecchio di oltre 40 anni, è così attuale. Perché la tecnologia cambia, ma le dinamiche sociali e organizzative si ripetono.

Il punto non è che le macchine ci rubino il lavoro. Il punto è che se non accompagniamo il cambiamento con una trasformazione organizzativa e culturale, la sensazione sarà sempre quella: che qualcuno ci sta togliendo qualcosa.


E allora cosa possiamo fare?

La risposta non è fermare la tecnologia. Sarebbe assurdo, oltre che impossibile. La vera leva è riprogettare il lavoro, ogni volta che introduciamo una tecnologia nuova.

Non basta inserire un nuovo gestionale, una dashboard, un sistema intelligente di workflow. Serve capire come quel cambiamento modifica i ruoli, i tempi, gli obiettivi, le relazioni tra le persone. Serve un cambio di mentalità: dalla sostituzione all’integrazione.


Non dobbiamo chiederci solo quanto costa o quanto tempo fa risparmiare. Dobbiamo chiederci:


  • Cosa possiamo liberare, oltre al tempo?

  • Che valore possiamo creare con quel tempo in più?

  • Come coinvolgere le persone nella costruzione del nuovo?


Il finale può cambiare. Ripensando alla frase di Tove Christensen, mi viene da dire che oggi — più di allora — abbiamo la possibilità di scrivere un finale diverso.


Abbiamo più strumenti, più consapevolezza, più esperienze a cui guardare. E soprattutto, abbiamo una grande responsabilità: quella di non ripetere gli stessi errori.

Il cambiamento va guidato, non subito. La tecnologia può essere una grande alleata — se decidiamo che il suo scopo è servire le persone, non sostituirle.


Il futuro del lavoro non è un mondo in cui le macchine vincono e le persone perdono. È un mondo in cui le macchine fanno meglio ciò che noi non dovremmo più fare, per permetterci di fare meglio tutto il resto.


💬 Ti è mai capitato di assistere a un cambiamento tecnologico che non è stato accompagnato da un vero cambiamento organizzativo?


Con questo concludo e #restoinascolto 

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